Claudia Digiuro

I FIGLI SONO SEMPRE ‘FIGLI UNICI’

Il mestiere del genitore, diceva Freud, è un mestiere impossibile!

Il genitore riesce a svolgere sufficientemente bene il suo ruolo educativo solo quando può ammettere questa impossibilità.

Potremmo dire che un genitore sufficientemente buono è colui che, consapevole della fallibilità del suo ruolo e nonostante questo, riesce a trasformare il limite in una occasione per sviluppare un proprio intuito educativo.

In altre parole è auspicabile essere genitori ‘passabili’ cioè capaci di rimanere eterni apprendisti senza la pretesa di essere perfetti, magari evitando di attenersi alle prescrizioni di un manuale e relazionandosi a un figlio come si fa con un elettrodomestico.

Gli elettrodomestici si sa, obbediscono tutti agli stessi processi, mentre un figlio richiede a gran voce di essere guardato in modo unico, pena l’esclusione dalla scena relazionale.

Bettelheim (1987) invita a pensare alla relazione genitore-figlio come una partita a scacchi in cui ‘il giocatore che cerca di seguire i suoi piani senza tener conto delle mosse dell’avversario , va incontro inevitabilmente alla sconfitta’. Ciò significa che la partita che si gioca nell’educazione dei figli non può non tener conto dell’unicità di ognuno di loro, così come dello specifico rapporto che con loro si verrà a creare.

Ecco perché i manuali che prescrivono come essere un bravo genitore in realtà non contengono mai informazioni del tutto utili. Come evitare le cattive compagnie, come scegliere il percorso di studi, come comportarsi con i capricci, quali giochi scegliere, come insegnare ad obbedire, cosa dire, cosa non dire..

Ogni volta che un genitore si attiene solo a consigli generalizzati senza portare niente di sé nella relazione, i figli colgono l’assenza di sforzo, di investimento creativo del genitore.

Il sospetto di non esserne degni si insinua in ogni occasione di confronto portando sentimenti di sfiducia, sconforto o rabbia.

Non c’è niente di peggio per un figlio che sentirsi uno tra tanti agli occhi di mamma e papà.

Come psicologi assistiamo frequentemente all’utilizzo di modelli educativi narcisistici in cui i figli sono considerati per ciò di cui mancano piuttosto che per la loro ricchezza.

Si tende a trascurarne desideri, attitudini e orientamenti.

Si chiede loro di uniformarsi alle aspettative genitoriali supponendo che la strada che si è predisposta per il loro futuro (scuola, carriera, compagni..) sia la migliore possibile.

J. Lacan riteneva che una funzione essenziale dell’essere genitore consista nel riconoscere al figlio una singolarità che gli permetta di accedere ai propri desideri senza sentirsi costretto ad aderire a quelli preconfezionati dalle figure di riferimento.

Invece accade spesso che i figli arrivino in seduta ammutoliti, depredati della loro voce e disorientati rispetto al proprio essere nel mondo, proprio perché privati dell’entusiasmo di scoprirsi e incapaci di vedersi come esseri irripetibili.

L’ imposizione della supremazia genitoriale può declinarsi in questi termini: scongiurare la crescita dei figli e la conquista della loro autonomia evita di sancire la fine della propria giovinezza.

Per uscire da questa spirale narcisistica può essere utile che il genitore riesca ad accedere ai vissuti che lo hanno abitato da bambino e poi da adolescente, quando doveva fare i conti lui stesso con quello sguardo adulto da cui si aspettava comprensione e sostegno.

Poter recuperare l’esperienza di figlio permette di avvicinarsi con una consapevolezza nuova alla relazione e introdurre in questa uno sguardo più accogliente, accettando le difficoltà e l’ambivalenza che la crescita, naturalmente, comporta.